I libri di storia, anche quelli calcistici, esistono per essere studiati. Amaramente ingoiati per alcuni, un ripasso che non fa mai male per altri. Questa è la storia di lacrime e incredulità, di gioie e scudetti. Di Inter, Lazio e Juventus: il triangolo no, non l'avevo considerato…
Einstein se ne faccia una ragione, non sono solo due le cose infinite: all'universo e alla stupidità umana, siamo tutti d'accordo se ci aggiungessimo il sospiro con cui ogni tifoso nostalgicamente nerazzurro si alza dal letto ogni 5 del quinto mese del calendario. E allora eccoci qui, ad oltre 15 anni di distanza.
Il sole è caldo sopra l'Olimpico, come il cuore di migliaia di tifosi che invadono la capitale. Più che una trasferta, ha tutte le sembianze di una domenica passata a casa della nonna. Uno di quei festanti pranzi che sin dal vecchio portone odorano di ragù e spensieratezza. Percorrere i gradini a due a due è un inno alla felicità, perché prima arrivi al piano e prima rivedi i cugini che intanto sono arrivati in anticipo.
Più o meno così per il tifoso interista in quel nefasto pomeriggio di inizio maggio. Ogni casello sorpassato, ogni check-in superato in aeroporto ed ogni stazione ferroviaria attraversata lungo il tragitto: da Milano (e non) fino a Roma è una corsa verso lo scudetto, il quattordicesimo. I gradoni, non più -ini, sono quelli degli spalti. E i cugini, anche se non di sangue questa volta, sono comunque lì che ti aspettano per festeggiare, perché no, insieme.
L'Inter contro la Lazio ci arriva da prima in classifica, la Juventus ad Udine è seconda e quella partita può vincerla anche con sedici gol di scarto. Tanto alla beneamata, di reti in più degli avversari, ne basta uno. Che di arrivare, arriva. E anche subito, ma non quanto ci mette Trezeguet a mettere giusto un attimo di pressione: Vieri si toglie la maglia e le urla sono di gioia. Al dodicesimo di gioco è 0-1. E' fatta. Ma è anche pazza, quest'Inter. In mezzo il vuoto, perché al triplice fischio sarà 4-2, e come sia potuto accadere lo lasciamo raccontare alle lacrime di Ronaldo: il fenomeno sta seduto in panchina; la faccia non la fa mai vedere perché raccolta nelle mani che adesso grondano incubi liquidi. I bianconeri, più a nord-est, vincono tutto quello che c'è da vincere: match e tricolore.
Di mani al petto ad altezza cardiaca non ne serviranno più, come quelli che Cuper si riservava di battere all'ingresso in campo dei suoi. Nessun tipo di rianimazione, solo il tempo che passa l'unica soluzione. Ma che dolore, nel frattempo. Materazzi, che qualche anno prima col Perugia aveva sancito la stessa fangosa sentenza per la Vecchia Signora, non se ne capacita. Kallon pure, entrato a pochi minuti dalla fine etichettando quella sostituzione come la più inutile di tutti i tempi.
E allora nessuno osi prendersela seriamente con Nagatomo. Voi, interisti, ve la sentireste davvero di sfogare rabbia e frustrazione sul giapponese, quando nel 2002 la corsia mancina la percorreva Gresko? Mai più fortunati con i terzini sinistri. Tranne che per Maxwell con cui, lo stesso giorno ma di otto anni dopo, ci si incamminava verso il Triplete. Quando la sorte ci si mette, sa essere davvero ironica.
Come il treno che perdi per questione di attimi. Come quando ti stai abbandonando all'orgasmo, ma di prepotenza tua madre irrompe in camera. Come una poesia magari, quella famosa: “Ei fu, siccome immobile, dato il mortal anticipo. Di Poborsky”.
C'era una volta… Karel Poborsky, talento ceco indigesto agli interisti