I ricordi di una carriera da campione, gli spunti di riflessione di un uomo maturo e sensibile, le preoccupazioni di chi al Milan è legato indissolubilmente: parla Paolo Maldini, domani cinquantenne
Alla vigilia del suo cinquantesimo compleanno, la leggenda del Milan Paolo Maldini ha rilasciato un'intervista lunga 50 domande alla Gazzetta dello Sport soffermandosi sugli argomenti più disparati, dai suoi ricordi gloriosi allo scorrere del tempo, fino ad arrivare alla più stringente attualità.
Proprio la situazione societaria del Milan è un argomento delicato per l'ex capitano rossonero, che a riguardo dice: “Sono preoccupato“. Poi riguardo la richiesta di equità di giudizio da parte dell'ad Fassone aggiunge: “Non credo che l'UEFA ce l'abbia col Milan, anzi credo che vorrebbe un Milan forte. Poi vedremo gli sviluppi“.
Sul significato dell'essere una bandiera: “Significa avere responsabilità in più e arriva un momento in cui sei pronto a prenderle. Anche se non sei tu a decidere di inventare una bandiera. Da ragazzo io cercavo di guardare il più possibile e di parlare il meno possibile A un certo punto, però, capii che era giunto il momento di prendere delle responsabilità. E allora cambia anche la percezione degli altri nei tuoi confronti“.
Sulla cultura sportiva italiana: “Non ce n'è abbastanza in Italia. Non si accetta la sconfitta. Ricordo sempre l'entusiasmo dei tifosi del Liverpool sullo 0-3 ad Instanbul“.
Un tasto dolente, il Mondiale 2018: “Il Dio pallone ha presentato il conto di quattro anni di errori e ci ha fatto saltare un giro. La Federazione non aveva messo il calcio al centro del progetto“. Il più grande problema italiano è “la gestione, non abbiamo ancora un presidente. Abete lo stimo, è una bravissima persona, ma siamo sempre lì. La gestione dell'eliminazione con la Svezia è stata ridicola“.
Sulle proposte di lavoro pervenutegli: “Ho la fortuna di non aver bisogno di lavorare e quindi di poter selezionare. A Barbara Berlusconi, però, avevo detto sì: non è saltata per mia volontà. Ho detto di no alla proprietà attuale. Con la Nazionale avrei fatto il team manager al Mondiale 2014, ma poi non mi chiamarono più. Dissi no al Chelsea perché avevo appena smesso e non era chiaro il mio ruolo“.
Sugli anni più belli e la gioia sportiva più grande: “Il 1996 e il 2001 per la nascita dei miei figli, la stagione 2002-03: la migliore come forza, testa e tecnica. La gioia più grande è stato l'esordio in Serie A“.
Su Sacchi: “Di Sacchi ho pensato spesso che fosse pazzo e un pochino lo penso anche adesso. Ma senza di lui non ci sarebbe stata l'epopea del Milan. Significa che un pizzico di follia ci vuole“.
Infine premia Baresi come suo compagno più forte di sempre e Weah come il più divertente in campo, parla di Papa Wojtyla e Papa Francesco come i personaggi che hanno lasciato in lui la traccia più forte e individua nella semifinale Italia-Argentina del Mondiale '90 il suo più grande rimpianto sul terreno di gioco. La conclusione però è riservata a una riflessione intima: “Voglio dire che la vita è bella. Sono un uomo fortunato e un sognatore. Sognare aiuta e ho ancora qualcosa da realizzare, che non posso svelare. Piuttosto ho il rimpianto di non aver sfruttato la notorietà degli anni da calciatore per creare una fondazione benefica“.