
Contro il Liverpool ha debuttato lo sponsor Qatar Airways sulle maglie della Roma. Dallo Jagermeister al maglificio Ponte, tutti gli sponsor che hanno fatto la storia rivisti in questa puntata di “Economia nel pallone”
La partita di Champions League tra Liverpool e Roma passerà alla storia non soltanto per il 5-2 rifilato dagli inglesi ai giallorossi nella semifinale d'andata, ma anche per la novità sulla maglia di De Rossi &co. Infatti, dopo oltre cinque anni, la squadra capitolina è tornata ad avere un main sponsor, ossia la Qatar Airways, e lo fa a stagione quasi conclusa. Un accordo, quello tra Pallotta e la compagnia aerea, che porterà alle casse giallorosse circa quaranta milioni più bonus in tre anni e che prevede che la società qatariota diventi anche main global partner.
L’#ASRoma è lieta di annunciare @qatarairways come Main Global Partner e nuovo sponsor di maglia#GoingPlacesTogether pic.twitter.com/VJatNteRew
— AS Roma (@OfficialASRoma) April 23, 2018
Ma la storia del calcio è pieno di aneddoti curiosi riguardanti il mondo delle pubblicità nel calcio, che portano enormi ricavi ai club. Per questa puntata di “Economia nel pallone“, ripercorriamo alcuni dei più importanti passaggi che hanno portato le sponsorizzazioni ad essere così importanti nel calcio.
I divieti di sponsorizzazione e i nomi dei club: il Lanerossi Vicenza
Ad un millennial, e in generale a tutti i nati nell'ultimo scorcio del XX secolo, può sembrare assurdo pensare alle maglie di calcio prive di ogni logo e macchia, se non quello del club stesso. Ma una volta era così non soltanto per i gusti delle dirigenze, ma anche e soprattutto per le federazioni nazionali, che vietavano le pubblicità sulle divise. Già allora, però, i club dovevano far fronte a costi e oneri, quali ad esempio le trasferte e gli stipendi. Non si parlava di certo di cifre esorbitanti come adesso, però bisogna anche pensare che gli introiti delle società erano derivanti sostanzialmente dai biglietti venduti allo stadio o dai cartelloni pubblicitari ai bordi del campo, quando permessi dalle regole comunali.
Anche le aziende sentivano il bisogno di entrare nel mondo del calcio, in modo tale da fidelizzare i clienti e crearne di nuovi. L'idea è semplice: chi va allo stadio, prima ancora di essere un tifoso, è un consumatore, ossia la parte più importante dell'economia. E la semplice opera di cartellonistica non poteva di certo bastare. Allora furono molti i club, già durante la seconda guerra e poi fino agli anni '70/'80, ad aggirare la norma degli sponsor e a utilizzare uno strumento ancora più potente: la cessione del nome. Se gli esordi di Juventus e Torino furono con gli intendi più nobili, ossia quelli di trasformare i calciatori in operai in modo tale da non farli partire per la guerra (nacquero così la Juventus Cisitalia e il Torino Fiat), il resto è mera pubblicità. Il più famoso caso è quello del Vicenza, che dal 1953 al 1990 venne conosciuta con il nome di Lanerossi, un importante lanificio di Schio. E fu qui che apparve un primo tentativo di sponsor: lo stemma della società fino al 1989 divenne una stilizzata ‘R‘, simbolo anche dell'azienda.
Il primo sponsor tra i professionisti: il caso Jagermeister
Il divieto di sponsorizzazioni non riguardava soltanto i confini nazionali: infatti anche nella Germania Ovest i club erano sottoposti ai veti della Dfb, la federazione tedesca. In realtà non esisteva una vera e propria regolamentazione fino al 1967, quando il Wormatia, un club semiprofessionistico, si presentò in campo con il marchio della Caterpillar per quattro partite, prima di essere bloccato dalla federcalcio. La Dfb, infatti, decise che nessun segno ad eccezione dello stemma del club potesse essere posto sulla maglia. Ma a quanto pare anche i tedeschi conoscono il detto “fatta la legge, trovato l'inganno” e così un altro caso a distanza di 10 anni scosse l'opinione pubblica.
Stavolta però la faccenda fu ben più grave. L'anno è il 1973, siamo nella Bassa Sassiona, più precisamente nella città di Braunschweig, composta da 250mila abitanti. Lì tutti seguono le gesta dell'Eintracht, club della massima divisione tedesca, che ha vinto il campionato nel 1966-1967 e che versa in una disperata situazione economica. A circa 12 km da lì sorge un paese ben più piccolo, Wolfenbüttel, però famosissimo in tutta la regione. Da lì infatti nasce nel 1934 lo Jägermeister, liquore alle erbe pronto a sbarcare sugli scaffali di tutta la Germania e dell'Europa. Il proprietario dell'azienda è Mast, per nulla interessato al calcio, ma che ha capito la potenzialità dello sport nazionale. Sa che il Braunschweig è in crisi e allora si propone di saldare tutti i debiti, a patto di poter apporre il suo marchio sulle maglie.
La dirigenza accetta, ma deve fare i conti con la Dfb che non vede per niente di buon occhio questa operazione. Il lungo tira e molla si conclude con un ‘escamotage': il club sostituisce il suo stemma (un leone rampante) con il ben più famoso cervo dell'amaro. Si scatena il putiferio, tanto che l'opinione pubblica parla di una sorta di prostituzione da parte del club. I giocatori del Braunschweig diventano ‘quelli dello Jager', e addirittura si rischia di non vederlo mai: infatti durante la prima ‘apparizione' dello stemma sulle maglie (contro lo Schalke 04, 24 marzo 1973) ci si accorge che è più grande rispetto ai limiti consentiti. L'arbitro del match, Wengenmayer, chiude un occhio e decide di scrivere la storia. Montano nuove polemiche, con la critica schierata compatta contro il duo Eintracht-Jagermeister. Ma l'effetto è quello desiderato da Mast: al bar dello sport non si fa che parlare del liquore, e tra una parola e l'altra non si può certo non berne un goccio.
In Italia: apripista Udinese e Perugia
Finora abbiamo parlato soltanto di maglie da gioco. Già, perché effettivamente nel regolamento sono citati soltanto i divieti su quest'ultime. Se ne accorge il presidente dell'Udinese Teofilo Sanson, imprenditore e presidente della catena ‘Gelati Sanson', che sfrutta il cavillo e l'8 ottobre 1978 durante il match al Friuli contro il Foggia valevole per la terza giornata di Serie B, apre agli sponsor sulle divise. Ma come detto, non sulle maglie, bensì sui pantaloncini.
I mass media, ormai stufi dei divieti di sponsorizzazione delle federazioni, esultano alla trovata del patron bianconero. Non si può dire lo stesso della Figc, che infuriata obbliga la squadra a rimuovere il logo e complice il giudice sportivo, che nel suo verdetto considera il termine ‘maglie' del regolamento come sinonimo di ‘indumenti da gioco' (“viva la sineddoche“, come diceva Checco Zalone), multa il club per 10 milioni di lire. Va da sé però che Sanson ottiene i risultati sperati: l'attenzione dell'opinione pubblica e l'aumento delle vendite dei prodotti.
Ormai i tempi sono maturi per gli sponsor, basta soltanto raggirare la regola in un altro modo per far cadere tutti i divieti. Ci riuscirà il Perugia il 26 agosto 1979, sancendo l'inizio ufficiale delle pubblicità sulle divise da gioco. Ancora una volta non si tratta di un match di Serie A, bensì di Coppa Italia: i grifoni umbri hanno bisogno di una mano economica per portare Paolo Rossi all'ombra dell'Arco Etrusco. Così si affidano al duo Buitoni-Perugina (IBP) che gli offrono 400 milioni in cambio però di far comparire il logo del pastificio Ponte sulle proprie maglie. Anche stavolta la Figc e la Lega fanno muro e bloccano la dirigenza umbra, ma i biancorossi non ci stanno e in 48 ore fondano un maglificio, il Ponte Sportswear, sfruttando la possibilità di esporre sulle divise lo sponsor tecnico, cioè il fornitore degli indumenti sportivi, in vigore dall'ottobre del 1978.
Ancora una volta la Figc risponde con veemenza, multando il club e obbligandolo ad eliminare il logo. Ma non solo l'allora presidente D'Attoma non risponde alla chiamata all'ordine, ma appone sponsor su tutto comprese reti e erba del Renato Curi. Seguiranno il suo escamotage Cagliari, Genoa, Torino e anche Inter, tanto che le leghe e la Figc dovettero alzare bandiera bianca, aprendo ufficialmente alle pubblicità sugli indumenti dal 1981.
I sodalizi storici dei club più importanti
Ci sono alcuni marchi di aziende che sono ormai indissolubilmente legati al nome di una squadra di club. Per i più datati, un esempio è Ariston, famosa marca di elettrodomestici che ha coperto la pancia dei giocatori della Juventus per circa 10 anni (dal 1981 al 1990). Come non pensare allo storico legame Pirelli-Inter, nato nel 1995 e che ancora oggi va avanti e che secondo contratto è destinato a continuare almeno fino al 2021. Senza dimenticare il Milan, che dal 1994 al 2006 ha legato il suo nome e i suoi successi a quelli dell'Opel.
Operazione nostalgia quest'anno per la Lazio, che è tornata ad indossare il nome della Seleco come già fatto dal 1982 al 1984. Nell'immaginario collettivo però rimane la maglia biancoceleste con il logo della Cirio, che nonostante i successivi guai finanziari e il crack Cragnotti, ha segnato forse il miglior periodo del club della Capitale. E per restare sempre a Roma, dall'altra sponda del Tevere impossibile non associare il completo giallorosso con il nome Buitoni, sponsor del club dal 1981 al 1994. I successi che vanno dal 1988 al 1991 del Napoli di Maradona, invece, sono legati all'azienda di dolciumi statunitense Mars.
L'attuale regolamento degli sponsor e il peso in bilancio
Da quando è stato sdoganato, lo sponsor sulle magliette è diventato parte fondamentale del gioco del calcio: non vi è mai capitato di voler mettere su una squadra per un torneo estivo e di andare a bussare alle porte di qualche negozio? Adesso le pubblicità sono permesse sia davanti che dietro, e possono essere esposti più di un logo. In Italia, ad esempio, si possono mettere tutte le pubblicità che si desiderano, purché sul davanti della divisa non vengano coperti più di 350 centimetri quadrati, 200 centimetri quadrati per il retro. Un esempio è il Napoli che sulla maglia dei giocatori porta tre loghi: Lete, Pasta Garofalo e Caffè Kimbo. Inoltre un club può, in linea teorica, cambiare sponsor ad ogni partita e più squadre possono avere la stessa pubblicità sulle divise.
In generale però le sponsorizzazioni (sia per quanto riguarda le divise o il materiale sportivo, sia quelli che vengono chiamati in gergo ‘Official Partner‘) sono un importante fetta dei ricavi delle società. Andando a leggere ad esempio il bilancio della Juventus relativo al primo semestre 2017/2018, alla voce “Ricavi da sponsorizzazioni e pubblicità” i bianconeri segnano più di 43 milioni di euro, per una proiezione sul bilancio finale di oltre 86 milioni di euro. Ossia circa il 15% del totale dei ricavi che per questo semestre ammontano a circa 290 milioni di euro. Dunque la voglia da parte dei club di legarsi ad uno sponsor non è stata dettata semplicemente dalla voglia di ‘abbellire' la divisa o da un capriccio contro le federazioni, ma dal bisogno di aumentare le entrate per sopravvivere e per affrontare campagne acquisti che negli anni '80 diventarono faraoniche. Si può dunque dire che in un certo senso la trasformazione in business del calcio mondiale sia iniziata proprio a Braunschweig, mentre quella del calcio italiano tra Perugia e Udine.
